F.A.Q. E LUOGHI COMUNI
1. QUANDO SI VIVE UNA SOFFERENZA PSICOLOGICA, É MEGLIO RIVOLGERSI AD UNO PSICOLOGO, AD UNO PSICHIATRA O AD UNO PSICOTERAPEUTA?
Spesso esiste un po’ di confusione tra figure professionali vicine per nome (psicologo, psicoterapeuta o psichiatra), ma molto diverse per l’aiuto che ciascuna è formata a fornire, per il percorso di studi, per le aree su cui gli è possibile intervenire.
È importante saperle distinguere per capire a chi è più opportuno rivolgersi in base alla propria situazione e – in casi specifici, in mancanza di tali informazioni – è utile richiedere al professionista al quale ci si è rivolti a quale figura professionale appartiene.
Gli interventi dello psicologo (cosa può fare) sono rivolti a singoli individui, oppure coppie, famiglie o comunità e sono:
- Interventi di prevenzione, diagnosi, riabilitazione e sostegno;
- Interventi volti alla crescita personale;
- Interventi clinici: valutazione e riabilitazione cognitiva e dei disturbi del comportamento;
- Riabilitazione psicosociale, valutazioni cliniche, perizie, diagnosi;
- Interventi volti al benessere psicofisico.
Quello che lo psicologo non può fare (rispetto alle altre due figure professionali): psicoterapia e prescrivere farmaci.
Il suo percorso di studi comprende l’intero iter formativo dello psicologo e in aggiunta una Scuola di Specializzazione Quadriennale in Psicoterapia riconosciuta dal MIUR. Solo al termine della stessa gli è possibile effettuare l’Iscrizione all’Elenco degli Psicoterapeuti.
Ci sono moltissime scuole di psicoterapia, ognuna delle quali ha un suo specifico orientamento teorico e tecnico (Vedi Approcci). Questo vuol dire che i terapeuti possono lavorare in modi anche molto differenti fra loro.
Circa le cose che lo Psicoterapeuta può fare rientrano tutte le importanti prestazioni dello Psicologo, interventi con tecniche specifiche e in condizioni particolari (setting) su disturbi psichici anche intensi e cronici e il trattamento dei disturbi di personalità.
Quello che lo psicoterapeuta non può fare (rispetto alle altre due categorie professionali): prescrivere farmaci se non ha una laurea in medicina.
Il suo percorso di studi comprende una laurea in Medicina della durata di 6 anni, un tirocinio formativo della durata di 12 mesi al termine del quale può sostenere l’Esame di stato e successivamente effettuare l’iscrizione all’Ordine dei Medici. Infine, una Scuola di Specializzazione in Psichiatria della durata di 5 anni.
Gli interventi che lo Psichiatra può fare sono focalizzati sulla cura, dal punto di vista medico, delle psicopatologie, come ad esempio la depressione, i disturbi d’ansia, i disturbi di personalità, i disturbi alimentari, disturbi psicotici ecc.. Valuta inoltre gli aspetti biologici sottostanti tali patologie ed utilizza, quando necessario, la terapia farmacologica.
Quello che lo Psichiatra non può fare (rispetto alle altre due categorie professionali): effettuare un percorso di psicoterapia, a meno che non abbia frequentato una Scuola di Specializzazione Quadriennale in Psicoterapia riconosciuta dal MIUR; effettuare una valutazione psicologica.
È importante saperle distinguere per capire a chi è più opportuno rivolgersi in base alla propria situazione e – in casi specifici, in mancanza di tali informazioni – è utile richiedere al professionista al quale ci si è rivolti a quale figura professionale appartiene.
- Chi è lo Psicologo? Cosa può fare e cosa non può fare?
Gli interventi dello psicologo (cosa può fare) sono rivolti a singoli individui, oppure coppie, famiglie o comunità e sono:
- Interventi di prevenzione, diagnosi, riabilitazione e sostegno;
- Interventi volti alla crescita personale;
- Interventi clinici: valutazione e riabilitazione cognitiva e dei disturbi del comportamento;
- Riabilitazione psicosociale, valutazioni cliniche, perizie, diagnosi;
- Interventi volti al benessere psicofisico.
Quello che lo psicologo non può fare (rispetto alle altre due figure professionali): psicoterapia e prescrivere farmaci.
- Chi è lo Psicoterapeuta? Cosa può fare e cosa non può fare?
Il suo percorso di studi comprende l’intero iter formativo dello psicologo e in aggiunta una Scuola di Specializzazione Quadriennale in Psicoterapia riconosciuta dal MIUR. Solo al termine della stessa gli è possibile effettuare l’Iscrizione all’Elenco degli Psicoterapeuti.
Ci sono moltissime scuole di psicoterapia, ognuna delle quali ha un suo specifico orientamento teorico e tecnico (Vedi Approcci). Questo vuol dire che i terapeuti possono lavorare in modi anche molto differenti fra loro.
Circa le cose che lo Psicoterapeuta può fare rientrano tutte le importanti prestazioni dello Psicologo, interventi con tecniche specifiche e in condizioni particolari (setting) su disturbi psichici anche intensi e cronici e il trattamento dei disturbi di personalità.
Quello che lo psicoterapeuta non può fare (rispetto alle altre due categorie professionali): prescrivere farmaci se non ha una laurea in medicina.
- Chi è lo Psichiatra? Cosa può fare e cosa non può fare?
Il suo percorso di studi comprende una laurea in Medicina della durata di 6 anni, un tirocinio formativo della durata di 12 mesi al termine del quale può sostenere l’Esame di stato e successivamente effettuare l’iscrizione all’Ordine dei Medici. Infine, una Scuola di Specializzazione in Psichiatria della durata di 5 anni.
Gli interventi che lo Psichiatra può fare sono focalizzati sulla cura, dal punto di vista medico, delle psicopatologie, come ad esempio la depressione, i disturbi d’ansia, i disturbi di personalità, i disturbi alimentari, disturbi psicotici ecc.. Valuta inoltre gli aspetti biologici sottostanti tali patologie ed utilizza, quando necessario, la terapia farmacologica.
Quello che lo Psichiatra non può fare (rispetto alle altre due categorie professionali): effettuare un percorso di psicoterapia, a meno che non abbia frequentato una Scuola di Specializzazione Quadriennale in Psicoterapia riconosciuta dal MIUR; effettuare una valutazione psicologica.
2. LO PSICOLOGO CURA I PAZZI?
Per fortuna è stata superata ormai da anni la vecchia dicotomia “PAZZO-SANO” che per molto tempo ha fatto sì che molte persone ricevessero diagnosi di normalità o al contrario di malattia mentale. Con sempre maggiore convinzione, si è compreso, attraverso anni di ricerche e pubblicazioni scientifiche sui maggiori manuali diagnostici internazionali per la salute mentale, che in realtà non esiste una divisione netta tra “persone normali” e “malate mentali” e che queste stesse definizioni non sono altro che etichette inutili, prive di valore, che fanno aumentare ancor di più stereotipi e pregiudizi. Quello che si è capito, e che oggi viene condiviso dalla maggior parte, è che in realtà esiste una sorta di “CONTINUUM di funzionamento” che non solo ha vari livelli, ma influenza in modo separato sfere diverse. Per fare degli esempi più concreti, una persona può essere un brillante manager e avere allo stesso tempo problemi e difficoltà nella relazione di coppia, una donna può essere una bravissima insegnante e avere grosse difficoltà a gestire la propria figlia. Il “continuum” si riferisce al modo in cui funzioniamo nella vita di ogni giorno e riguarda diverse sfere: dal modo in cui ci comportiamo, a quello in cui sentiamo, percepiamo noi stessi e gli altri, al modo in cui reagiamo... il tutto per la gran parte del tempo, un po’ un modo di essere costante che fa parte di noi. Diverso è, o diversi potremmo essere, durante periodi particolari, periodi caratterizzati da perdite, lutti, mancanze, abbandoni percepiti, separazioni, cambiamenti sostanziali, che generalmente provocano grosse quote di stress e possono talvolta alterare il nostro “normale funzionamento”.
Spesso un modo di essere nostro, specifico, in una determinata situazione non ci aveva mai dato alcun problema, mentre all’improvviso, forse per via di un cambiamento di contesto, di relazioni o semplicemente in un periodo diverso della nostra vita, potrebbe necessitare un cambio di strategie, un nuovo modo di risolvere i problemi. Vorrei inoltre ricordare quello che intende l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) circa il benessere di ciascun individuo (benessere che a volte cerchiamo e abbiamo difficoltà a trovare da soli), benessere che l’OMS definisce come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia".
Spesso un modo di essere nostro, specifico, in una determinata situazione non ci aveva mai dato alcun problema, mentre all’improvviso, forse per via di un cambiamento di contesto, di relazioni o semplicemente in un periodo diverso della nostra vita, potrebbe necessitare un cambio di strategie, un nuovo modo di risolvere i problemi. Vorrei inoltre ricordare quello che intende l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) circa il benessere di ciascun individuo (benessere che a volte cerchiamo e abbiamo difficoltà a trovare da soli), benessere che l’OMS definisce come "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia".
3. CE LA POSSO FARE DA SOLO!
Siamo “animali sociali”, affermava già Aristotele nell’antichità, e poi ancora Foulkes “ci ammaliamo dentro le relazioni e sempre dentro le relazioni ci curiamo”.
Il “chiedere aiuto”, specie alla persona giusta, è già una risorsa/capacità della persona che è abile nel formulare tale richiesta. Siamo animali sociali e negarci la possibilità di essere aiutati ci rende certamente più fragili. Inoltre, formulare la domanda giusta implica già diverse risorse, utili nella vita per raggiungere diversi obiettivi: dalla capacità di chiedere in modo assertivo (e non passivo/aggressivo), a quella di far emergere/sviluppare le proprie strategie di coping (= modalità di adattamento con le quali si fronteggiano situazioni stressanti) e quelle di problem solving (= strategie che aiutano a risolvere un problema). Non ce la possiamo fare da soli a risolvere problematiche per le quali la soluzione nasce dal confronto, dall’ampliamento del nostro punto di vista. Non ce la possiamo fare da soli quando sintomi invalidanti (ansia, depressione, fobie) rendono difficoltoso l’accesso alle nostre risorse individuali o ne restringono la funzionalità.
In queste e in molte altre situazioni della vita abbiamo un unico modo di attingere alle nostre risorse e di dimostrare la nostra forza e le nostre capacità umane: CHIEDERE AIUTO.
Un pensiero che credo di condividere con molti colleghi è che chi arriva a richiedere la nostra consulenza è in genere una persona dotata di maggiore consapevolezza, capacità intellettive e coraggio di mettersi in discussione rispetto alla media. Per questo spesso mi trovo a considerare che i miei pazienti siano tra le persone migliori che io conosca!
Il “chiedere aiuto”, specie alla persona giusta, è già una risorsa/capacità della persona che è abile nel formulare tale richiesta. Siamo animali sociali e negarci la possibilità di essere aiutati ci rende certamente più fragili. Inoltre, formulare la domanda giusta implica già diverse risorse, utili nella vita per raggiungere diversi obiettivi: dalla capacità di chiedere in modo assertivo (e non passivo/aggressivo), a quella di far emergere/sviluppare le proprie strategie di coping (= modalità di adattamento con le quali si fronteggiano situazioni stressanti) e quelle di problem solving (= strategie che aiutano a risolvere un problema). Non ce la possiamo fare da soli a risolvere problematiche per le quali la soluzione nasce dal confronto, dall’ampliamento del nostro punto di vista. Non ce la possiamo fare da soli quando sintomi invalidanti (ansia, depressione, fobie) rendono difficoltoso l’accesso alle nostre risorse individuali o ne restringono la funzionalità.
In queste e in molte altre situazioni della vita abbiamo un unico modo di attingere alle nostre risorse e di dimostrare la nostra forza e le nostre capacità umane: CHIEDERE AIUTO.
Un pensiero che credo di condividere con molti colleghi è che chi arriva a richiedere la nostra consulenza è in genere una persona dotata di maggiore consapevolezza, capacità intellettive e coraggio di mettersi in discussione rispetto alla media. Per questo spesso mi trovo a considerare che i miei pazienti siano tra le persone migliori che io conosca!
4. GLI STESSI CONSIGLI ME LI DÁ UN AMICO, PER QUESTO DALLO PSICOLOGO VA CHI È SOLO!
Qualche tempo fa ho incontrato un amico che aveva vissuto da poco un momento difficile. Parlavamo del più e del meno e poi, approfittando di un momento di silenzio - che io in genere lascio avvenire riconoscendolo come atto comunicativo, momento in cui, grazie alla vicinanza e alla fiducia che lo sostengono nella relazione, emergono i contenuti più autentici - lui ha condiviso con me un pezzettino del suo dolore... Mi son chiesta: chissà se riesce a farlo spesso e chissà quanto ne ha bisogno. Con lui non faccio la psicologa, sono sua amica, ma l'ho ascoltato in quel modo tipico in cui si ascolta nel mio lavoro: lasciando che avvenga il silenzio, "vedendolo" - spesso nelle conversazioni tendiamo a vedere nei messaggi dell'altro solo lo spunto per le nostre risposte-, sospendendo giudizio, consigli, crocerossismo & co. e accogliendo, semplicemente, il suo bisogno, il suo stato d'animo.
Spesso dallo psicologo si va anche solo per questo: per essere ascoltati, ma di un ascolto "tecnico", "esperto", come dal dentista si va per avere cure più "tecniche" ed "esperte" dei consigli di parenti e amici su cosa fare col mal di denti. Quando abbiamo mal di denti il dentista è senza dubbio la persona migliore a cui possiamo rivolgerci. Quando abbiamo bisogno di essere ascoltati o stiamo attraversando un momento di crisi o ci sentiamo sofferenti "nell'anima" (emozioni, pensieri, relazioni con noi stessi e con gli altri), lo psicologo è la persona migliore a cui possiamo rivolgerci.
Sempre per mettere in luce le differenze tra la conversazione con un amico e quella con uno psicologo, un altro aspetto molto importante è l’alleanza terapeutica che si viene a creare in terapia. La ricerca scientifica attuale evidenzia come il maggior fattore di efficacia/riuscita di una terapia sia proprio l’alleanza terapeutica che non ha nulla a che fare con una relazione amicale.
L’alleanza terapeutica è un macroconcetto che come un ombrello racchiude al suo interno diversi altri concetti molto importanti che la rendono tale: dal clima di rispetto, empatia e accettazione incondizionata che caratterizzano il lavoro di un terapeuta al rispetto del setting e delle sue regole, al contratto grazie al quale vengono stabiliti gli obiettivi terapeutici. In una relazione amicale, per quanto sensibile all’ascolto e rispettosa dell’altro, è poco probabile si vengano a creare in maniera intenzionale e deliberata tutte le variabili appena ravvisate, indispensabili per un lavoro che sia effettivamente ‘terapeutico’.
Spesso dallo psicologo si va anche solo per questo: per essere ascoltati, ma di un ascolto "tecnico", "esperto", come dal dentista si va per avere cure più "tecniche" ed "esperte" dei consigli di parenti e amici su cosa fare col mal di denti. Quando abbiamo mal di denti il dentista è senza dubbio la persona migliore a cui possiamo rivolgerci. Quando abbiamo bisogno di essere ascoltati o stiamo attraversando un momento di crisi o ci sentiamo sofferenti "nell'anima" (emozioni, pensieri, relazioni con noi stessi e con gli altri), lo psicologo è la persona migliore a cui possiamo rivolgerci.
Sempre per mettere in luce le differenze tra la conversazione con un amico e quella con uno psicologo, un altro aspetto molto importante è l’alleanza terapeutica che si viene a creare in terapia. La ricerca scientifica attuale evidenzia come il maggior fattore di efficacia/riuscita di una terapia sia proprio l’alleanza terapeutica che non ha nulla a che fare con una relazione amicale.
L’alleanza terapeutica è un macroconcetto che come un ombrello racchiude al suo interno diversi altri concetti molto importanti che la rendono tale: dal clima di rispetto, empatia e accettazione incondizionata che caratterizzano il lavoro di un terapeuta al rispetto del setting e delle sue regole, al contratto grazie al quale vengono stabiliti gli obiettivi terapeutici. In una relazione amicale, per quanto sensibile all’ascolto e rispettosa dell’altro, è poco probabile si vengano a creare in maniera intenzionale e deliberata tutte le variabili appena ravvisate, indispensabili per un lavoro che sia effettivamente ‘terapeutico’.
5. SI SCEGLIE SE ANDARE DALLO PSICOLOGO O DALLO PSICHIATRA IN BASE ALLA GRAVITÁ DEL DISAGIO?
Qualche volta, durante la mia attività clinica, mi è capitato di sentir dire: “Sono veramente messo male, ho l’impressione che lo psicologo non mi basti. Forse solo uno psichiatra mi può salvare!”. In realtà, a cambiare tra lo psicologo e lo psichiatra sono i livelli d’intervento, non la gravità del disagio. Mi viene in mente l’ansia, che ha un’ampissima varietà di sintomi (dalla semplice ansia, alle numerose fobie specifiche, al disturbo ossessivo-compulsivo ecc..), tutti più o meno gravi. In concreto, ciascuno di questi quadri può essere affrontato con una psicoterapia che va ad agire alla base del sintomo (si cerca di capire quale sia il disagio di fondo, apportando in casi opportuni delle modifiche alla personalità), ma si può affrontare lo stesso problema dallo psicologo con una terapia supportiva, di sostegno. Si può anche andare in cura da uno psichiatra per la somministrazione di un farmaco nel caso in cui la gravità dell’ansia sia talmente invalidante da richiedere un intervento dal punto di vista bio-chimico (si pensi ad esempio ad una depressione post-partum prolungata che necessita un riequilibrio dei neurotrasmettitori andati alla rinfusa per via del parto).
Quello che è importante sapere è che psicoterapia e intervento farmacologico possono tranquillamente andare di pari passo. Anzi, nella mia pratica clinica quotidiana mi avvalgo usualmente della collaborazione con psichiatri, con i quali spesso approntiamo, per alcuni casi clinici, percorsi integrati tra consulenza psicologica e farmacoterapia. Molti pazienti che seguo fanno uso di psicofarmaci ed insieme agli psichiatri cui si rivolgono ci confrontiamo su progressi e cambiamenti per concordare la sospensione del farmaco o per apportare eventuali cambiamenti alla somministrazione. Nel caso in cui un paziente che seguo faccia uso di psicofamaci, è importante il confronto, durante i colloqui, sul significato che essi attribuiscono al farmaco, su vissuti e paure associati (dipendenza, sintomi da sospensione ecc.). Inoltre è fondamentale il sostegno che il paziente riceve durante la fase di sospensione del farmaco. Molti pazienti che seguo e che ho seguito hanno sospeso con successo e senza ricadute la farmacoterapia anche dopo anni di assunzione, grazie all’alleanza terapeutica e all’ottimo lavoro di cambiamento portato avanti insieme.
In molti casi è sufficiente la psicoterapia per portare a una remissione del sintomo, ma risulta inutile e spesso dannoso il contrario: un intervento farmacologico senza la psicoterapia.
I farmaci non “aggiustano”, anzi, quando li si assume con questa aspettativa, creano solo la convinzione che ci sia qualcosa di noi da aggiustare e vanno a rinforzare convinzioni errate. Per esempio, per chi si trova a vivere una depressione, il farmaco lascia passare l’idea che essa sia una malattia da debellare, una sorta di nemico da abbattere e non lascia spazio all’importanza di accogliere quel sintomo come una comunicazione proveniente da una parte del proprio sé. Rinfoza invece credenze disfunzionali secondo le quali “senza il farmaco io non posso funzionare”, creando il più delle volte dipendenza e andando a risolvere temporaneamente un sintomo che ha preso un volto come un altro (dell’ansia, della depressione, dell’ossessività, del delirio ecc..) e che in realtà nasconde un dolore, un disagio che in quel momento è capace di venire fuori in quel modo lì con cui è venuto fuori.
È importante, infine, riconoscere il Vantaggio Secondario che un sintomo può ricoprire nella vita di colui che, quasi sempre non intenzionalmente, l’ha sviluppato. Il vantaggio secondario di un sintomo è il processo inconscio per il quale “scegliamo” di soffrire di questo piuttosto che di un dolore più grande o difficile da affrontare, con il quale lo sostituiamo.
Quello che è importante sapere è che psicoterapia e intervento farmacologico possono tranquillamente andare di pari passo. Anzi, nella mia pratica clinica quotidiana mi avvalgo usualmente della collaborazione con psichiatri, con i quali spesso approntiamo, per alcuni casi clinici, percorsi integrati tra consulenza psicologica e farmacoterapia. Molti pazienti che seguo fanno uso di psicofarmaci ed insieme agli psichiatri cui si rivolgono ci confrontiamo su progressi e cambiamenti per concordare la sospensione del farmaco o per apportare eventuali cambiamenti alla somministrazione. Nel caso in cui un paziente che seguo faccia uso di psicofamaci, è importante il confronto, durante i colloqui, sul significato che essi attribuiscono al farmaco, su vissuti e paure associati (dipendenza, sintomi da sospensione ecc.). Inoltre è fondamentale il sostegno che il paziente riceve durante la fase di sospensione del farmaco. Molti pazienti che seguo e che ho seguito hanno sospeso con successo e senza ricadute la farmacoterapia anche dopo anni di assunzione, grazie all’alleanza terapeutica e all’ottimo lavoro di cambiamento portato avanti insieme.
In molti casi è sufficiente la psicoterapia per portare a una remissione del sintomo, ma risulta inutile e spesso dannoso il contrario: un intervento farmacologico senza la psicoterapia.
I farmaci non “aggiustano”, anzi, quando li si assume con questa aspettativa, creano solo la convinzione che ci sia qualcosa di noi da aggiustare e vanno a rinforzare convinzioni errate. Per esempio, per chi si trova a vivere una depressione, il farmaco lascia passare l’idea che essa sia una malattia da debellare, una sorta di nemico da abbattere e non lascia spazio all’importanza di accogliere quel sintomo come una comunicazione proveniente da una parte del proprio sé. Rinfoza invece credenze disfunzionali secondo le quali “senza il farmaco io non posso funzionare”, creando il più delle volte dipendenza e andando a risolvere temporaneamente un sintomo che ha preso un volto come un altro (dell’ansia, della depressione, dell’ossessività, del delirio ecc..) e che in realtà nasconde un dolore, un disagio che in quel momento è capace di venire fuori in quel modo lì con cui è venuto fuori.
È importante, infine, riconoscere il Vantaggio Secondario che un sintomo può ricoprire nella vita di colui che, quasi sempre non intenzionalmente, l’ha sviluppato. Il vantaggio secondario di un sintomo è il processo inconscio per il quale “scegliamo” di soffrire di questo piuttosto che di un dolore più grande o difficile da affrontare, con il quale lo sostituiamo.
5. CHE COSA DIREBBERO GLI ALTRI SE SAPESSERO CHE VADO DALLO PSICOLOGO?
Su questa non mi dilungherei poi molto. Se fossi io a pensarlo, cercherei di rivalutare il peso che l’opinione degli altri ha su di me. Se fossi tu, ti inviterei a riflettere insieme a me e sempre insieme cercheremmo di trovare un nuovo modo di vedere non soltanto gli altri, ma anche noi stessi.