Premessa importante: la sola persona al mondo che possiamo (forse e con impegno) cambiare siamo noi stessi. Il desiderio o, peggio, il tentativo di cambiare l'altro, qualunque sia la relazione in cui con questi ci troviamo, ci espone a parecchi rischi e a nessun vantaggio: il sicuro fallimento se non, addirittura, l'ottenere il risultato opposto a quello sperato; il cullarci in una speranza destinata a rimanere vana; il conflitto con la persona che vorremmo cambiare, che si sentirà, giustamente incompresa e non accettata. |
E quest'ultima cosa sarebbe grave per la persona e per la relazione, perché l'accettazione è uno dei presupposti basilari di un rapporto di affetto e amore sano.
Ma cosa sarà questa accettazione, che molti confondono con un atteggiamento di passiva rassegnazione alla vita e agli altri? Ecco, il punto è proprio questo: il focus sul continuum passività/attività. Perché di passivo l'accettazione non ha nulla e per questo si distingue dalla rassegnazione. Accettare non è tenersi qualcosa o qualcuno così com'è, assodata l'impossibilità di un cambiamento, ma è osservare quella cosa o persona così com'è, prenderne atto e muoversi di conseguenza. Nell'accettazione, l'agente, il soggetto, è chi accetta; nella rassegnazione il potere è sull'altro, sulla realtà esterna.
Chi accetta agisce, chi si rassegna subisce.
Accettare implica la capacità di:
1. centrarsi (le mie emozioni, i miei bisogni, le mie reazioni sono appunto roba mia, dipendono da me, non dagli altri o da situazioni esterne);
2. osservare (sé e l'altro e la realtà) e, dunque...
3. ...agire conseguentemente a ciò che abbiamo constato di provare (centrandoci) rispetto alla persona, situazione, comportamento osservati.
Ed occorre fare un'ulteriore distinzione tra l'atto dell'osservare e quello del giudicare, che non sono ovviamente coincidenti. Nel giudizio viene coinvolta una componente di valutazione soggettiva dell'altro o della realtà, di norma rispondente alle domande: "mi piace/non mi piace?" o "lo trovo giusto/sbagliato?" che, erroneamente, tendiamo ad oggettivizzare ("è bello/brutto?", o "è giusto/sbagliato").
Osservare è semplicemente prendere atto che quella persona o cosa o situazione è. Esiste, così com'è. E la nostra risposta o reazione al suo essere è, appunto, nostra. Osservare è dire: "quella sveglia è nera", giudicare è dire: "quella sveglia è bella/brutta (perché è nera)". Osservare è dire: "quando quella persona alza la voce io provo emozioni spiacevoli", giudicare è: "quella persona ha modi sbagliati perché alza la voce e mi fa del male: dovrebbe cambiare!".
Nella fattispecie, accettare l'altro significa comprendere che quando reagiamo con dolore o disagio a un suo comportamento, non possiamo cambiarlo ma solo osservarlo, prenderne atto e muoverci di conseguenza. Non possiamo chiedergli di soddisfare le nostre aspettative. Non ci giova e non gli giova manifestargli tutta la nostra rabbia e il nostro dolore nella speranza che cambi se stesso o i suoi comportamenti nocivi. Piuttosto, accettando la persona e la realtà dei fatti, potremmo comunicare in maniera assertiva e in prima persona quel che proviamo (lasciando all'altro, eventualmente, la libertà di attivare spontaneamente un cambiamento in reazione alla nostra comunicazione) e intraprendere azioni o compiere scelte a partire da quanto constatato.
Accettare l'altro ci apre alla possibilità di ignorare, soprassedere o di accogliere con leggerezza...o, in extremis, di lasciar andare.
E lo stesso vale per le situazioni, oltre che con le persone. Dunque non si pone la questione se è meglio accettare o lasciar andare, sarebbe così se si confondesse, appunto, l'accettazione con la rassegnazione.
Non è "accetto O lascio" ma "accetto ED, eventualmente, lascio".
Si rimane molto più facilmente imprigionati in qualcosa o "attaccati" a qualcuno in un atteggiamento di rassegnazione che in uno di accettazione.
Ma cosa sarà questa accettazione, che molti confondono con un atteggiamento di passiva rassegnazione alla vita e agli altri? Ecco, il punto è proprio questo: il focus sul continuum passività/attività. Perché di passivo l'accettazione non ha nulla e per questo si distingue dalla rassegnazione. Accettare non è tenersi qualcosa o qualcuno così com'è, assodata l'impossibilità di un cambiamento, ma è osservare quella cosa o persona così com'è, prenderne atto e muoversi di conseguenza. Nell'accettazione, l'agente, il soggetto, è chi accetta; nella rassegnazione il potere è sull'altro, sulla realtà esterna.
Chi accetta agisce, chi si rassegna subisce.
Accettare implica la capacità di:
1. centrarsi (le mie emozioni, i miei bisogni, le mie reazioni sono appunto roba mia, dipendono da me, non dagli altri o da situazioni esterne);
2. osservare (sé e l'altro e la realtà) e, dunque...
3. ...agire conseguentemente a ciò che abbiamo constato di provare (centrandoci) rispetto alla persona, situazione, comportamento osservati.
Ed occorre fare un'ulteriore distinzione tra l'atto dell'osservare e quello del giudicare, che non sono ovviamente coincidenti. Nel giudizio viene coinvolta una componente di valutazione soggettiva dell'altro o della realtà, di norma rispondente alle domande: "mi piace/non mi piace?" o "lo trovo giusto/sbagliato?" che, erroneamente, tendiamo ad oggettivizzare ("è bello/brutto?", o "è giusto/sbagliato").
Osservare è semplicemente prendere atto che quella persona o cosa o situazione è. Esiste, così com'è. E la nostra risposta o reazione al suo essere è, appunto, nostra. Osservare è dire: "quella sveglia è nera", giudicare è dire: "quella sveglia è bella/brutta (perché è nera)". Osservare è dire: "quando quella persona alza la voce io provo emozioni spiacevoli", giudicare è: "quella persona ha modi sbagliati perché alza la voce e mi fa del male: dovrebbe cambiare!".
Nella fattispecie, accettare l'altro significa comprendere che quando reagiamo con dolore o disagio a un suo comportamento, non possiamo cambiarlo ma solo osservarlo, prenderne atto e muoverci di conseguenza. Non possiamo chiedergli di soddisfare le nostre aspettative. Non ci giova e non gli giova manifestargli tutta la nostra rabbia e il nostro dolore nella speranza che cambi se stesso o i suoi comportamenti nocivi. Piuttosto, accettando la persona e la realtà dei fatti, potremmo comunicare in maniera assertiva e in prima persona quel che proviamo (lasciando all'altro, eventualmente, la libertà di attivare spontaneamente un cambiamento in reazione alla nostra comunicazione) e intraprendere azioni o compiere scelte a partire da quanto constatato.
Accettare l'altro ci apre alla possibilità di ignorare, soprassedere o di accogliere con leggerezza...o, in extremis, di lasciar andare.
E lo stesso vale per le situazioni, oltre che con le persone. Dunque non si pone la questione se è meglio accettare o lasciar andare, sarebbe così se si confondesse, appunto, l'accettazione con la rassegnazione.
Non è "accetto O lascio" ma "accetto ED, eventualmente, lascio".
Si rimane molto più facilmente imprigionati in qualcosa o "attaccati" a qualcuno in un atteggiamento di rassegnazione che in uno di accettazione.