Il mio lavoro è logorante. Anzi, è potenzialmente logorante. E ti spiego perché. Ci sono giorni che vai a studio e tutto fila abbastanza liscio. Le gestalt nelle sedute si aprono e si chiudono con fluidità e seguono senza intoppi il sentiero tracciato dalle conoscenze scientifiche e dal metodo, in un percorso a due (o più, nelle sedute di coppia e di gruppo) reso agevole e piacevole dalle regole del setting, dalla relazione e dall’alleanza terapeutica e da quel clima di fiducia, stima, rispetto e affetto che si crea in modo così unico e speciale tra le pareti di uno studio di psicoterapia. |
Ma ci sono anche volte in cui ti ritrovi sul cammino ostacoli che ti rendono difficile e faticoso proseguire.
A volte sono le normali e fisiologiche resistenze della persona che sta facendo il suo percorso, perché fare psicoterapia non è un gioco da ragazzi: bisogna esser pronti a guardarsi davvero dentro con autenticità, onestà e amore, in grado di mettersi in discussione e capaci di rinunciare ai “vantaggi secondari” che quei sintomi, quel malessere portati ad esser risolti e superati, comunque costituivano.
Ma quelle (le resistenze più o meno inconsce) le metti in conto, fanno parte del gioco, e con un buon metodo e una solida relazione terapeutica, ce la si fa. È faticoso, ma ce la si fa. Ci si rimbocca le maniche in due (o più, nelle sedute di coppia e di gruppo), si tiene fede al patto di rimanere sempre sul percorso illuminato dal faro della fiducia, della stima, del rispetto e dell’affetto, e ce la si fa.
Altre volte ci si imbatte invece in ostacoli che non sono quelli previsti dal gioco, che non li hai studiati sui banchi della scuola di psicoterapia… o almeno, ancora non erano nei programmi quando ci andavo io (erano già accennati sì, ma non approfonditi)… e lì sale il livello di difficoltà, il gioco si fa duro. Parlo di quando entrano in ballo atteggiamenti oppositivi sostenuti e alimentati da pregiudizi, ignoranza e impoverimento culturale progressivo dell’epoca dei social, di dottor Google e di pandemia e post pandemia.
Perché la società è cambiata, giusto? Ce ne siamo accorti tutti, immagino.
E dunque ti imbatti in tutte quelle insidie determinate dalla credenza sempre più diffusa che “siamo tutti un po’ psicologi”. Per via del dilagare sui social di post e co. che parlano di benessere e offrono soluzioni fruibili nel tempo medio necessario per catturare l’attenzione dei naviganti (6 – 7 secondi, mi pare) e che lasciano appunto, il tempo che trovano, ormai siamo tutti esperti di narcisismo, ghosting, dipendenza, silenzi punitivi, strategie per contrastare l’ansia e la depressione e per essere felici e per avere successo, soldi, bellezza….
Siamo tutti un po’ psicologi.
E virologi.
E allenatori.
E economisti.
Sì, tante sono le professioni svilite dal sovraccarico di informazioni (e dal conseguente abbassamento del livello di attendibilità e scientificità delle stesse) determinato dal nuovo dominio di social e internet, ma la mia credo sia sul podio delle più colpite. Gente che ti arriva a studio e ti chiede se la psicologia è una scienza e se tu la aiuterai a guarire dai suoi mali con i tuoi consigli e le tue opinioni personali (tipo mago? Fattucchiera? Prete? Amico saggio?) o se invece non sia il caso di ricorrere a dei farmaci….
O altri che si mettono a discutere con te dimenticando che tifi per loro, che ti muovi secondo le conoscenze scientifiche e non secondo opinioni e pareri tuoi sulla vita, e che non sarebbero lì da te se le loro credenze non fossero limitanti e fonte di malessere. Sì, questi ci sono sempre stati, ma oggi ti arrivano con argomentazioni fondate sull’ultimo post letto e sulle diagnosi di dottor Google, e siccome “la psicologia non è una scienza”, vai a fargliele mettere in discussione…
E c’è tanto altro, ma mi fermo qui: è davvero troppo svilente.
E allora lì che fai? In quei momenti lì, che inizi a dubitare della tua professione, delle tue conoscenze, della psicologia, della tua stessa persona (perché il terapeuta, nella psicoterapia, è egli stesso strumento di lavoro), cosa fai?
L’avvilimento spesso è tanto e la tentazione di mollare tutto a volte fa capolino.
Ma è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare…
Se quei momenti lì li prendi come nuove sfide, possibilità di trovare nuove soluzioni, di crescere, di imparare cose che ancora non sai, di produrre cambiamenti, allora il gioco torna ad essere piacevole.
Anche più piacevole.
Certo, devi passare dalla posizione accovacciata in cui ti piangevi addosso a quella eretta in cui ti osservi e osservi la situazione, ti metti in discussione con amore e gentilezza, cercando di capire cosa puoi far meglio o devi imparare, e continui ad avere fiducia in te, nel tuo prossimo, nella professione che ami e che hai scelto, nella vita. È una cosa che non sempre (forse quasi mai) si può fare da soli. Per questo ringrazio il mio amico Valentino che giorni fa mi ha esortata a non mollare mai, ribadendomi tutta la sua stima nei miei confronti. E ringrazio la mia amica Diana che mi ha ricordato che i limiti si possono trasformare in risorse e le difficoltà in opportunità. E ringrazio le mie colleghe di studio che ogni giorno ci credono con me, quanto e più di me. E ringrazio i miei familiari, che non mancano mai di rispondermi con un cuoricino o altre espressioni di stima e affetto e incoraggiamento ogni volta che leggono un mio articolo o la divulgazione di una mio nuovo progetto. E ringrazio tutti gli abbracci che do e ricevo ogni giorno, dentro e fuori dal mio studio, che mi ricordano sempre quanto tutto sia più semplice nell’amore e nella fiducia.
Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare, forti del rinnovamento della fiducia in sé, negli altri, nella vita e armati del super potere magico dell’amore e della relazione.
A volte sono le normali e fisiologiche resistenze della persona che sta facendo il suo percorso, perché fare psicoterapia non è un gioco da ragazzi: bisogna esser pronti a guardarsi davvero dentro con autenticità, onestà e amore, in grado di mettersi in discussione e capaci di rinunciare ai “vantaggi secondari” che quei sintomi, quel malessere portati ad esser risolti e superati, comunque costituivano.
Ma quelle (le resistenze più o meno inconsce) le metti in conto, fanno parte del gioco, e con un buon metodo e una solida relazione terapeutica, ce la si fa. È faticoso, ma ce la si fa. Ci si rimbocca le maniche in due (o più, nelle sedute di coppia e di gruppo), si tiene fede al patto di rimanere sempre sul percorso illuminato dal faro della fiducia, della stima, del rispetto e dell’affetto, e ce la si fa.
Altre volte ci si imbatte invece in ostacoli che non sono quelli previsti dal gioco, che non li hai studiati sui banchi della scuola di psicoterapia… o almeno, ancora non erano nei programmi quando ci andavo io (erano già accennati sì, ma non approfonditi)… e lì sale il livello di difficoltà, il gioco si fa duro. Parlo di quando entrano in ballo atteggiamenti oppositivi sostenuti e alimentati da pregiudizi, ignoranza e impoverimento culturale progressivo dell’epoca dei social, di dottor Google e di pandemia e post pandemia.
Perché la società è cambiata, giusto? Ce ne siamo accorti tutti, immagino.
E dunque ti imbatti in tutte quelle insidie determinate dalla credenza sempre più diffusa che “siamo tutti un po’ psicologi”. Per via del dilagare sui social di post e co. che parlano di benessere e offrono soluzioni fruibili nel tempo medio necessario per catturare l’attenzione dei naviganti (6 – 7 secondi, mi pare) e che lasciano appunto, il tempo che trovano, ormai siamo tutti esperti di narcisismo, ghosting, dipendenza, silenzi punitivi, strategie per contrastare l’ansia e la depressione e per essere felici e per avere successo, soldi, bellezza….
Siamo tutti un po’ psicologi.
E virologi.
E allenatori.
E economisti.
Sì, tante sono le professioni svilite dal sovraccarico di informazioni (e dal conseguente abbassamento del livello di attendibilità e scientificità delle stesse) determinato dal nuovo dominio di social e internet, ma la mia credo sia sul podio delle più colpite. Gente che ti arriva a studio e ti chiede se la psicologia è una scienza e se tu la aiuterai a guarire dai suoi mali con i tuoi consigli e le tue opinioni personali (tipo mago? Fattucchiera? Prete? Amico saggio?) o se invece non sia il caso di ricorrere a dei farmaci….
O altri che si mettono a discutere con te dimenticando che tifi per loro, che ti muovi secondo le conoscenze scientifiche e non secondo opinioni e pareri tuoi sulla vita, e che non sarebbero lì da te se le loro credenze non fossero limitanti e fonte di malessere. Sì, questi ci sono sempre stati, ma oggi ti arrivano con argomentazioni fondate sull’ultimo post letto e sulle diagnosi di dottor Google, e siccome “la psicologia non è una scienza”, vai a fargliele mettere in discussione…
E c’è tanto altro, ma mi fermo qui: è davvero troppo svilente.
E allora lì che fai? In quei momenti lì, che inizi a dubitare della tua professione, delle tue conoscenze, della psicologia, della tua stessa persona (perché il terapeuta, nella psicoterapia, è egli stesso strumento di lavoro), cosa fai?
L’avvilimento spesso è tanto e la tentazione di mollare tutto a volte fa capolino.
Ma è quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare…
Se quei momenti lì li prendi come nuove sfide, possibilità di trovare nuove soluzioni, di crescere, di imparare cose che ancora non sai, di produrre cambiamenti, allora il gioco torna ad essere piacevole.
Anche più piacevole.
Certo, devi passare dalla posizione accovacciata in cui ti piangevi addosso a quella eretta in cui ti osservi e osservi la situazione, ti metti in discussione con amore e gentilezza, cercando di capire cosa puoi far meglio o devi imparare, e continui ad avere fiducia in te, nel tuo prossimo, nella professione che ami e che hai scelto, nella vita. È una cosa che non sempre (forse quasi mai) si può fare da soli. Per questo ringrazio il mio amico Valentino che giorni fa mi ha esortata a non mollare mai, ribadendomi tutta la sua stima nei miei confronti. E ringrazio la mia amica Diana che mi ha ricordato che i limiti si possono trasformare in risorse e le difficoltà in opportunità. E ringrazio le mie colleghe di studio che ogni giorno ci credono con me, quanto e più di me. E ringrazio i miei familiari, che non mancano mai di rispondermi con un cuoricino o altre espressioni di stima e affetto e incoraggiamento ogni volta che leggono un mio articolo o la divulgazione di una mio nuovo progetto. E ringrazio tutti gli abbracci che do e ricevo ogni giorno, dentro e fuori dal mio studio, che mi ricordano sempre quanto tutto sia più semplice nell’amore e nella fiducia.
Quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare, forti del rinnovamento della fiducia in sé, negli altri, nella vita e armati del super potere magico dell’amore e della relazione.